L’intelligenza artificiale agisce su quella umana. Il sistema scolastico è pronto ad affrontare la sfida? Internet ha un evidente impatto su vari aspetti della società moderna; ha completamente reinventato i modi in cui cerchiamo informazioni, consumiamo media e intrattenimento e gestiamo le nostre relazioni. Oggi con gli smartphone, l'accesso a Internet è diventato portatile e sempre presente rendendoci un popolo “online”.
In questi ultimi anni la ricerca si sta concentrando sempre più sull'influenza che internet può avere sulla struttura e sul funzionamento del cervello. Le ipotesi sono tante e vasto è il campo di indagine. Recenti studi psicologici, psichiatrici, pedagogici e di neuroimaging hanno esaminato diverse ipotesi chiave su come Internet potrebbe cambiare e influenzare la nostra cognizione: 1) le capacità di attenzione, perché la corrente di informazioni online incoraggia un’attenzione frammentata su più fonti multimediali, a discapito di una concentrazione prolungata; 2) i processi di memoria, perché l’ampia fonte di informazioni online modifica il modo in cui recuperiamo, archiviamo e valutiamo le conoscenze; 3) la cognizione sociale, perché gli impianti sociali online evocano i processi sociali del mondo reale e creano una nuova interazione tra Internet e le nostre vite sociali, compresi i nostri concetti di sé e la nostra autostima.
Gli studi disponibili indicano che Internet può produrre alterazioni in ciascuna di queste aree cognitive e generare cambiamenti nel cervello. Una priorità emergente per la ricerca è determinare gli effetti dell'uso prolungato dei media online sullo sviluppo cognitivo nei giovani, negli adulti, negli anziani e provare ad esaminarne le differenze.
Internet ha modificato il sistema emotivo-affettivo e il modo in cui rappresentiamo le emozioni, per questo motivo gli studiosi ritengono fondamentale rendere i giovani (sempre più connessi) consapevoli dei pericoli che si nascondono nella Rete e condurli verso un utilizzo consapevole, responsabile e competente di Internet, attraverso la Media Pedagogy (Simbirtseva, 2018).
La neuroplasticità, caratteristica del cervello che ci consente di adattarci ai cambiamenti e di trasformarci a fronte di nuove esigenze ambientali, ha originato dei cambiamenti strutturali nelle principali funzioni del cervello: l’attenzione e la memoria. Nell’era tecnologica il nostro sistema nervoso è continuamente esposto a stimoli intermittenti provenienti, contemporaneamente, da diverse fonti.
Per esempio il passaggio dalla lettura cartacea a quella digitale non cambia soltanto il modo in cui ci orientiamo in un testo scritto ma influenza anche il grado di attenzione e la profondità di coinvolgimento al suo interno. Ciò significa che non è possibile approcciarsi a un nuovo mezzo di comunicazione di massa che abbia a che fare con la mente senza produrre effetti sulla stessa. I link, per esempio, favoriscono e, a volte, costringono ad un passaggio frenetico da un sito all’altro, avvolgendoci in un flusso incalzante e turbinoso di informazioni (anche slegate tra loro) e impedendoci di rivolgere la nostra attenzione su una soltanto di esse.
La prolungata esposizione ad enormi quantità di informazioni (sfuggenti) ha plasmato il cervello dei nativi digitali, rendendoli capaci di rispondere in maniera immediata alla molteplicità di stimoli espressi dai dispositivi tecnologici ma diminuendo la loro soglia attentiva (si è passati dai 12 secondi rilevati nel 2012 agli 8 secondi rilevati nel 2013), e impedendo al cervello di creare connessioni neurali forti ed espansive in grado di dare profondità al pensiero. Inoltre, le persone che praticano multitasking (attività caratterizzata da attenzione frammentaria) risultano avere maggiori difficoltà a isolare gli stimoli distraenti e filtrare le informazioni.
Se consideriamo, invece, gli immigrati digitali è opportuno tener conto che, a causa dell’abitudine a stimoli lineari e legati da una connessione causale, impiegano maggior tempo dei nativi digitali per afferrare le informazioni, poiché sono abituati ad effettuare delle distinzioni tra i vari stimoli incontrati e decidere consapevolmente a cosa dedicare la propria attenzione, filtrando le eventuali informazioni non pertinenti.
Oggi, il non aver bisogno di utilizzare il bagaglio di conoscenze acquisite mina profondamente le capacità di attenzione, concentrazione, elaborazione e recupero delle conoscenze e, poiché queste ultime componenti sono indispensabili allo sviluppo della memoria, questa ne risulta profondamente inficiata (grandi quantità di informazioni vengono memorizzate su un hard disk piuttosto che nel cervello).
La memoria a breve termine conserva le nuove informazioni per circa 20 secondi e il cervello ha il tempo di elaborarle in maniera profonda (reiterazione elaborativa) per poi trasferirle alla memoria a lungo termine dove resteranno per giorni, mesi o anni, sotto forma di conoscenze, ricordi e/o esperienze. Il flusso continuo e inarrestabile di dati che transitano nella memoria a breve termine dei nativi digitali impedisce che le informazioni permangano abbastanza a lungo da poter essere elaborate, perdendosi e mescolandosi con informazioni provenienti da ulteriori stimoli (aumento del rischio di memorizzare i concetti in modo errato). La volatilità della memoria genera una bassa stabilità delle conoscenze. La carenza dei processi attentivi e mnemonici fornisce un decadimento cognitivo e un restringimento della cristallizzazione di esperienze e ricordi. A tal proposito, alcuni studiosi, ritengono che le nuove generazioni abbiano sviluppato una difficoltà di simbolizzazione e di astrazione che li sta conducendo verso l’incapacità di raccontare e raccontarsi, che è una modalità di interiorizzazione utile per creare connessioni logico temporali, per costruire e trasferire valori profondi e per orientare la propria esistenza.
Sebbene l’esposizione prolungata a stimoli veloci e continui danneggi l’elaborazione profonda, l’acquisizione di conoscenze, il pensiero critico, l’immaginazione e la riflessione, ha contribuito, invece, a sviluppare le capacità visivo-spaziali degli utenti, in particolar modo degli amanti di videogames, maggiormente esposti a tali stimoli.
Sono stati condotti vari studi per individuare una correlazione tra tecnologia, sviluppo linguistico e sviluppo motorio e di seguito ne riporto uno dei più recenti. Bedford, orientato a studiare l’effetto del touchscreen su bambini al di sotto dei 3 anni di età, ha messo in relazione le fasi dello sviluppo della motricità grossa (camminare) e della motricità fine (manipolare piccoli oggetti) con età, sesso, istruzione dei genitori e precoce utilizzo della tecnologia (Bedford et al., 2016). I risultati della ricerca non hanno convalidato una associazione negativa tra sviluppo generale e uso di tecnologie ma hanno suggerito una correlazione positiva con lo sviluppo motorio. Secondo i ricercatori questo risultato è indice di come i “baby nativi digitali” si stiano adattando, fisicamente e psicologicamente, al nuovo ambiente multimediale e virtuale. A tal proposito, ulteriori studi sono necessari per comprendere meglio la relazione tra tecnologia, sviluppo, risultati scolastici e conseguenze sulla società (Ripamonti, 2018: 54).
Un’altra riflessione importante va fatta, in termini psicologici, sulla differenza tra la capacità decisionale e quella di risoluzione di un problema. Nel problem solving il nostro atto decisionale è vincolato all’obiettivo mentre nel decision making l’atto di decisione è rappresentato da un ragionamento di scelta dell’alternativa più adeguata tra diverse opzioni.
Una decisione è il risultato di processi cognitivi ed emozionali che, come abbiamo visto, sono influenzati dalla tecnologia e da internet. Cerchiamo sul web soluzioni pratiche e veloci, consigli, esercizi di matematica quando non ci va di usare il cervello. Tutto ciò è il risultato di due fattori: il bisogno di efficienza e velocità, caratteristico della società di oggi, e la facilità con cui internet ci aiuta a risolvere problemi. Se internet non fornisse soluzioni così dettagliate, chiare e pertinenti per ognuno dei nostri problemi saremmo costretti a cercarle altrove, a studiare di più per risolvere il problema di matematica, a discutere e confrontarci con i colleghi.
Ma siamo veramente noi ad effettuare una scelta tra le possibilità proposte dai motori di ricerca? Nicholas Carr (2011; 2014) sottolinea che quando si affronta un compito o un problema con l’aiuto di un computer si può cadere vittima di due disturbi: compiacenza dell’automazione e condizionamento dell’automazione. Il primo termine indica la convinzione dell’uomo che tutte le attività svolte dalla macchina siano efficaci ed efficienti; il secondo che siano corrette ed affidabili.
La fiducia riposta nel software induce a ignorare o scartare altre fonti informative e i propri sensi (Cantelmi, 2017), riduce la nostra attenzione e lo spirito critico, indebolisce la capacità di distinguere informazioni vere da quelle false e di effettuare delle scelte autonome.
Alcuni studi hanno dimostrato che gli utilizzatori problematici di internet presentano una inibizione dei processi di decision making e di risposta agli stimoli (Chamberlain et al., 2018) e che l’attività di multitasking influenzi negativamente la concentrazione e le capacità di problem solving (Tapscott 2009). Il decision making è un’attività del pensiero che necessita dell’integrazione e comparazione di grandi quantità di informazioni con opinioni ed esperienze pregresse per giungere a una scelta definitiva, ma ormai tutte le informazioni ci vengono proposte dalla rete stessa e le diverse alternative sono prestabilite da leggi di marketing e dalla Search Engine Optimization (SEO).
La scuola, per condurre e accompagnare gli alunni verso l’autonomia di scelta, per fronteggiare situazioni impreviste, per favorire il ricorso alle conoscenze acquisite e alle abilità sviluppate per risolvere un problema, dovrebbe tenere in grande considerazione tutti questi cambiamenti dovuti alle dinamiche della rete e, senza limitare l’uso della tecnologia nei processi di insegnamento apprendimento, dovrebbe ristrutturare i propri paradigmi in vista di una armonica simbiosi tra reale e virtuale.
Alla luce dei cambiamenti, della complessità dei fenomeni in atto in questo nostro millennio, alla luce delle derivanti mutazioni cognitive, appena illustrate, è possibile riassumere, con le parole di Cantelmi, che i nativi digitali (Cantelmi 2017:48), attraverso gli avatar, imparano subito a manipolare parti di sé nel virtuale e i personaggi dei videogiochi sviluppano ampie abilità visuo-spaziali grazie a un apprendimento prevalentemente percettivo. Viceversa, non sviluppano adeguate capacità simboliche (con qualche modificazione di tipo metacognitivo), utilizzano il cervello in modalità multitasking, grazie alla tecno-mediazione della relazione sono abili nel rappresentare le emozioni, ma sono meno capaci di vivere le emozioni perché scompongono l’esperienza emotiva e la vivono su due binari spesso non paralleli (esperienza propria e rappresentazione), sono in grado di vivere su due registri cognitivi e socio-emotivi (reale/virtuale).
Paola Daniela Virgilio Insegnante e Pedagogista. Ha redatto la legge 1/10/2015, n. 22 sull’Istituzione delle Biobanche di Ricerca in Sicilia (pubblicata sulla G.U.R.S. 3a Serie Speciale n.12 del 19-03-2016); nel 2015 ha collaborato alla stesura degli emendamenti attuativi della stessa. Per questa legge nel 2016 ha ricevuto un pubblico riconoscimento, dall’Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze - Brain Research Fondazione ONLUS. Dal 2016 svolge attività di ricerca, sull’invecchiamento attivo, educazione permanente e riabilitazione cognitiva, come dottoranda presso la Facoltà di Scienze Giuridiche e Sociali dell’Università di Cordoba, in Spagna. Ha relazionato in Congressi Internazionali ottenendo pubblicazioni scientifiche degli studi condotti.