Il percorso di civiltà che ha contraddistinto la scuola italiana, prima attraverso l’iter legislativo iscrivibile nell’alveo della L.104/92, poi attraverso un percorso di rivisitazione generale di più ampio respiro del “fare scuola”, riconducibile all’ambito della L. 170/2010, sembra ancora lontano da una sua piena assimilazione culturale, pedagogica, strutturale, nonché fattuale.
A questa sovrapproduzione legislativa non sembra corrispondere una concreta azione inclusiva, troppo spesso demandata alla burocratizzazione o alla “medicalizzazione” della diversità.
Alla base di qualsiasi presupposto normativo sembrerebbe esserci lo sforzo di riconoscere prima e descrivere poi la diversità come qualità e prerequisito di percorsi formativi diversificati.
L’inclusione, però, come già prima l’integrazione così come concepita dalla L. 104/92, prevede, a monte, una ri-fondazione della scuola in termini di rivisitazione di curricoli, di metodologie e, non ultimo, del modo di interpretare il senso della diversità. Questa assurge a ruolo di risorsa quando iscritta nell’assunto pedagogico per cui ogni individuo è normalmente diverso dall’altro: la normalizzazione, intesa come standardizzazione della prassi didattica, non è in grado di rispondere a un’istanza di formazione individualizzata e personalizzata.
Una visione “ecologica” di inclusione secondo cui tutti hanno pari diritti di formazione e ciascuno secondo la propria specificità richiederebbe di abbandonare gli stereotipi dell’uguaglianza quale presunta normalità e della diversità come “malattia da curare”.
L’inclusione non rappresenta l’eccezione rivolta a coloro che necessitano di bisogni educativi speciali, ma diviene la norma per una piena realizzazione individuale attraverso un continuo processo di autoaffermazione.
La diversità si traduce in una rivoluzione culturale: il principio della convivenza civile prende corpo attraverso l’accettazione dell’altro e lo sviluppo identitario acquista forma attraverso il riconoscimento dell’altro.
Sul piano pedagogico, la portata è tale da investire ogni aspetto della persona, sia socio-culturale, sia personale in termini di inclinazioni, attitudini, aspirazioni.
La chiave interpretativa del modello inclusivo si può pensare fondata sulla concezione secondo cui l’apprendimento non è una scatola “nera” avulsa da qualsiasi contesto relazionale e autopoietico, ma è un processo adattivo che evolve dinamicamente per tradursi in cambiamento.
L’inclusione si fa risorsa se assunta come sfida per un apprendimento autentico e ispirato alla realtà individuale, da porre in atto attraverso la promozione di nuove pratiche di insegnamento, flessibili in termini metodologici e organizzativi.
Tale processo innovativo richiede un modello di scuola che si fa comunità in apprendimento.
Non basta individualizzare e personalizzare i percorsi ad hoc.
Incasellare il gruppo classe in rigidi schemi statici, calati in una realtà dinamica, non è plausibile. L’innovazione metodologica non può essere quella che fa solo uso, o abuso, di slogan di facciata, ma è quella che s’incarna in una prassi aperta al cambiamento.
Una didattica per gruppi di livello e classi aperte richiede, ad esempio, una diversa rimodulazione delle attività didattiche e un’organizzazione oraria più flessibile unitamente a un lavoro di equipe proattivo e coordinato, inteso sia verticalmente in senso disciplinare sia trasversalmente per assi culturali.
Non è sufficiente ricorrere a presunti progetti innovativi se non v’è una cabina di regia che muove gli attori delle “buone pratiche” in modo correlato e intenzionale.
Le compresenze, ad esempio, potrebbero essere un punto di forza, poiché rappresentano un modo diverso di concepire pratiche di insegnamento non più autoreferenziali. Un valido esempio, vessillo e antesignano della pedagogia del cambiamento, è quello della contitolarità del docente di sostegno.
Solo una pratica didattica mossa da un’organica spinta innovativa “distribuita”, fatta di condivisione d’intenti e d’interdipendenza, ed “ecologica”, ispirata al principio di una normale diversità, può conferire autenticità e orizzonti di significato al “fare scuola”.
Occorre probabilmente una “terapia” d’urto, da validare attraverso nuovi sistemi valutativi, per superare vecchi modelli scolastici precostituiti che rischiano solo, in modo autoreferenziale e dogmatico, di “promuovere”, per un verso, l’alunno, anziché la sua piena formazione, e, per l’altro, la Scuola, anziché le “buone pratiche” in senso pedagogicamente fondato.
Orsola Parmegiani Laureata in Fisica. Inizialmente impegnata nella ricerca e negli studi in Fisica medica, ha seguito un percorso di esperienza e di studio incentrato prevalentemente sull'apprendimento, accumulando negli anni diversi titoli riconosciuti dalle Università tra cui 5 specializzazioni sulle metodologie didattiche, dedicandosi al mondo della scuola in un'esperienza ventennale sul campo anche diversificata.