Misunderstanding e gestalt a confronto
Non è infrequente leggere commenti, interviste, “massime” e “sentenze” con ricettari di “pedagogismo” spicciolo, improvvisato da chi di scuola non s’è mai occupato in prima persona.
Spesso si punta il dito contro la scuola o, più specificatamente, contro l’intera categoria dei docenti. Nessuno, però, prova a interagire con loro per sapere quale sia la loro opinione sulla scuola e cosa si potrebbe fare per conferirle i meriti che le si dovrebbero tributare o che la scuola dovrebbe garantire.
Diventa difficile, allora, “riscoprire” quali siano il ruolo e la funzione cui è destinata.
Esistono almeno tre piani, a mio avviso, che investono la scuola e s’intrecciano in modo complesso e macchinoso (molto distante da quello dipinto semplicisticamente dai “ricercatori” di falsi problemi e/o improbabili soluzioni): normativo, istituzionale e formativo.
Nel caos vuoto descritto dall’“entusiasmo immotivato”(cit. Paolo Sorrentino) di genitori infervorati dal desiderio di essere al centro dell’attenzione per il merito di partecipare attivamente a imprecisate attività scolastiche, il rischio è proprio quello di vedere la scuola declinare irrimediabilmente in uno stato di svuotamento di senso e persistente stagnazione.
A tal proposito, penso anche a una certa sovrabbondanza di progetti indefiniti, affidati anche a terzi, e al dispendio di risorse umane ed economiche, quando poco o scarsamente finalizzate/utilizzate.
Partiamo ora dalla “scuola del merito”, accezione di dubbia interpretazione, a mio avviso.
Supponendo sia chiaro a tutti cosa s’intenda per “scuola”, definire la scuola del “merito”sembra l’ultimo atto della “commedia dell’arte” di cui è protagonista da tempo immemorabile.
Sono diversi anni che si parla d’inclusione, soggettivamente recepita ora come una vaga accoglienza, ora come via libera a certificazioni selvagge, o, ancora, come la promozione dell’appiattimento culturale e del facile apprendimento, unitamente al copioso fiorire di ricorsi amministrativi.
Quale sarebbe il merito di un’inclusione così concepita? La risposta potrebbe risiedere nel tasso di abbandono degli studi e di disoccupazione dopo la scuola (mancano giovani, infatti, in grado di rispondere alle offerte di lavoro).
Una prima analisi sommaria induce a ritenere che, rispetto alla scuola di gentiliana memoria, si è perso di vista, in primis, il senso della scuola stessa e, poi, della scuola delle professioni come della formazione superiore che, invece, in altri paesi europei resta ben strutturata, delineata e finalizzata.
Al boom di iscrizioni nei licei, ad esempio, è corrisposto un calo di iscritti nelle scuole professionali e negli ITI, quasi fosse poco meritevole chi vi si iscrive.
Quale correlazione potrebbe esserci tra l’inclusione e la concezione d’un cieco aziendalismo produttivo? L’obiettivo della scuola–azienda sarebbe quello di “produrre” diplomati per soddisfare, in tal modo, i suoi utenti?
Cosa si vorrebbe ottenere con la “scuola del merito”? Si vuole introdurre il “merito” perché non si ritiene che vi sia? Quale merito, di chi o per cosa?
Se s’intende una scuola tesa solo a premiare quanti dimostrano particolare predisposizione allo studio, lasciando indietro o abbandonando i più fragili per condizioni socio culturali o economiche, possiamo affermare che questa non è una scuola “meritevole di merito”.
Se, al contrario, si vogliono restituire alla scuola il ruolo e la funzione di formare cittadini del futuro meritevoli di condizioni di vita migliori di quelle di appartenenza/provenienza, allora sicuramente la scuola riesce ad assicurarsi il merito di aver assolto i suoi compiti.
Sicuramente occorrerebbe promuovere e valorizzare il talento di tutti in nome di una reale inclusione: se, infatti, l’attenzione si focalizza solo sugli alunni cosiddetti “fragili”, traducendosi in un’incessante, convulsa e mera ricerca di carenze, lacune, difficoltà di apprendimento et al., il rischio è quello di scoraggiare sia gli uni che quanti, definiti genericamente “bravi”, non solo necessitano di nuovi e continui stimoli culturali ma hanno parimenti diritto (a proposito di merito) ad accedere a ulteriori livelli, distinti per abilità, conoscenze, capacità, competenze, interesse, inclinazione, applicazione nello studio e/o maggior impegno.
La scuola, a mio avviso, deve riappropriarsi della sua giusta collocazione istituzionale: anche se la società ha subito profondi mutamenti, il rispetto dei ruoli di ciascuna componente andrebbero mantenuti distinti e intatti.
E’ consuetudine, ad esempio, da parte dei genitori decantare iniziative personali, assunte autonomamente, consistenti in uno studio assistito da generiche lezioni private pomeridiane: è maturata e/o s’è radicata la convinzione che la scuola non possa conquistarsi il merito di contribuire alla formazione adeguatamente e/o che le famiglie debbano farsi carico di compiti diversi da quelli esclusivamente di propria competenza?
Non ha più senso, forse, chiedersi quale sia il merito della scuola, piuttosto che ridefinire ciecamente la scuola del merito?
Orsola Parmegiani