La “parte” dei docenti nei Patti educativi
A una logica cosiddetta del panierino calato dall’alto con dentro tutte le risposte-risorse ai bisogni e alle necessità – logica di un passato sodalizio Stato-società – negli anni Novanta è stato “rispolverato” (si fa per dire) quel diktat aristotelico, rivisitato poi da Tommaso d’Aquino e tanto caro alla Dottrina sociale della Chiesa, che è il principio di sussidiarietà. Un principio che dopo il Trattato di Mastricht, è stato assunto, con la riforma del Titolo V (legge cost. n. 3 del 2001) ad abito costituzionale nel nostro Paese tra sussidiarietà verticale (aiuti dall’alto verso il basso) e orizzontale (cooperazione tra pari). E se quella verticale è stata subito recepita, quella orizzontale (nota come decentramento amministrativo –art.5 della Costituzione) ha avuto un decollo più lento. In questo processo ventennale si viene a trovare anche la Scuola (L. 241/90 e relativo DPR 275 del ’99) con la sua autonomia che ne modifica la struttura stessa –si pensi alla personalità giuridica della Scuola; alla qualifica dirigenziale del capo d’Istituto e del Segretario (DS e DSGA), al dimensionamento delle istituzioni scolastiche… ma man mano l’autonomia si è affermata fino ad arrivare ad oggi con toni di maggiore consapevolezza nella traduzione “attuativa” dei Patti educativi.
La chiave dunque che apre la porta ai Patti educativi è quella dell’Autonomia che se vede da una parte le istituzioni scolastiche “libere” di proporsi (nell’offerta formativa -PTOF), dall’altra si registra una maggiore presa di coscienza di essere Scuola radicata in un determinato territorio invitata a divenire attenta lettrice dei bisogni della comunità di appartenenza, non più “chiusa e arroccata” dunque nelle sue “mansioni” di routine, ma alleata capace di promuovere benessere e sviluppo culturale-economico. In questo modo coopera con enti, istituzioni e associazioni per un processo di crescita del territorio (cfr. L. 8/11/2000, n. 328). In un certo senso la Scuola educa alla formazione della persona e del cittadino nell’oggi, ma attraverso una pianificazione e progettazione che porta ad una costruzione armonica del domani. E’ un “sapere” che viene orientato dalla realtà e si traduce in scelte attuative di cambiamento e rinnovamento (come da Costituzione, si veda gli artt. 2, 43, 118). Un patto educativo che parte dalla micro-comunità familiare per allargarsi all’intero territorio. Diventa (la Scuola), in sintesi, essa stessa risorsa del e per il territorio.
Apice di questo processo è stata la L. 107 del 2015 (la Buona scuola) che ha ampliato e ribadito la “forza dell’autonomia”, si pensi alle “reti di ambito” (accordi di ambito e accordi di scopo) che contempla la Scuola come “Comunità di rete”, “soggetto giuridico” che trova nella cooperazione-collaborazione lo “strumento” per progettare insieme, gestire le criticità insieme, governare le problematicità insieme; e nella rete non ci sono solo le scuole ma confluiscono istituzioni ed enti locali, aziende, associazioni, soggetti privati (aspetto introdotto dalla 107/2015). E’ la nouvelle e la tanto nominata nuova governance delle Istituzioni scolastiche. Forse sarà anche per questo “spirito” normativo che la nota ministeriale relativa al Piano Scuola Estate 2021 definiva tale Piano “Un ponte per il nuovo inizio”. E nell’intento ci sono proprio i “Patti educativi di comunità”, introdotti dal MIUR proprio con l’obiettivo di, fatte le dovute alleanze, prevenire, combattere la povertà educativa e la dispersione scolastica.
Una scommessa che si gioca proprio sulla capacità di fare rete sul territorio. Ma chi è che contribuisce ad animare e ad attuare questi patti? Nella scelta delle numerose potenziali attività laboratoriali quale reale protagonismo-coinvolgimento degli alunni con i loro bisogni, unicità, creatività e competenze? Ancora. Quale è la “parte” dei docenti? E’ una volontà calata dall’alto o “votata” più o meno con intento delegante durante un Collegio? Se il territorio è il luogo che ci appartiene come si concilia con quei tanti (sempre più troppi) docenti che lavorano fuori sede? Cosa ci si può aspettare da chi non si sente (e forse non è) “parte” integrante di una comunità e di un territorio nel vissuto “quotidiano”? C’è un’autentica inclusione dei docenti nei vari processi di co-progettazione e co-gestione? Inoltre la fatica a far partire il “nuovo inizio” è dovuta ad una mobilità immobile? La DAD non era una risorsa “scoperta” per favorire l’inclusione di quegli alunni borderline? Forse andrebbe ripensato “il basso”, dopotutto il principio di sussidiarietà non è la molla di un’autonomia sempre più proclamata e desiderata?!
*Maria De Carlo, è nata e vive a Potenza. Insegna nella scuola secondaria di II grado. E’ dottora in Filosofia ed in Magistero in Scienze Religiose. Negli anni ha maturato numerose esperienze e incarichi scolastici anche a livello regionale, compresa la formazione ai docenti. Ha pubblicato alcuni saggi ed è presidente dell’associazione di pratiche filosofiche “Conduco un dialogo” (pag. FB e per ulteriori info https://mariadecarlo9.webnode.it/contatti/)