Le "seconde generazioni", occasione strategiche per un tessuto sociale a colori.

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I flussi migratori che hanno attraversato l’Europa tra il dopoguerra e la fine del secolo scorso, hanno creato una rete, un intreccio che segna percorsi lunghi, faticosi, dolorosi, perché a spostarsi non è banalmente e semplicemente un individuo, una famiglia, un gruppo, ma una cultura, una storia, un bagaglio esistenziale che, a un certo punto, dovrà entrare in sinergia con uno spazio nuovo, in un contesto differente e in una tessitura relazionale che può essere accogliente o respingente e dove sarà comunque necessario ricamare nuovi disegni, delineare nuove trame. 

E così è stato, sempre. Peraltro, non solo in Occidente ma in tutto il mondo, tanta umanità in fuga, in cerca di riparo, di riscatto, di risorse, ha segnato della propria presenza interi quartieri urbani, spesso non integrandosi, restando ghettizzata, generando desolanti sacche di emarginazione; altre e più fortunate volte, entrando in piena sinergia con la comunità locale. Tutto ciò è parte della Storia dell’uomo, una storia che si ripete ciclicamente.

Oggi, il dibattito in merito si apre al concetto di “seconde generazioni” e il plurale è d’obbligo sia perché l’espressione si riferisce ad un universo di rara complessità, strettamente legato e compromesso da diverse fasi di cicli migratori -basti pensare alla differenza tra gli estremi d’Italia, in termini numerici-, sia per la miscellanea etnica che connota il fenomeno. 

Qual è il profilo degli studenti delle seconde generazioni? Chi sono esattamente? Sono i figli dei primi immigrati, sono quelli che fin da piccoli si sono formati sui nostri banchi di scuola e hanno coltivato aspettative diverse da quelle dei loro genitori perché hanno vissuto, insieme ai compagni locali, un forte bisogno di omologazione che, se già è tipico di qualunque giovane studente, lo è ancor di più per chi avverte la propria diversità come un castigo, per chi vorrebbe avere lo stesso colore del compagno, per chi vorrebbe essere trasparente per scongiurare le intimidazioni del bullo. Sono quelli che spesso oscillano tra il bisogno di occidentalizzarsi, per una migliore e più facile integrazione e le resistenze derivanti dalle famiglie che mostrano una coriacea volontà di non “tradire” la cultura d’origine. Sono, infine, quelli per i quali la costruzione del sé, il riconoscimento sociale del proprio status identitario, la conciliazione tra le due culture fondanti della loro persona, si trasformano in conflitti che generano abissi. 

I figli degli immigrati hanno bisogno d’aiuto ma ne hanno anche quelli delle famiglie autoctone che non sono spesso adeguatamente preparati a una vera accoglienza, nelle classi come nei quartieri, nei luoghi della cultura informale e non formale.

Questa difficile realtà investe tutti i settori della vita associata ma certamente la scuola è lo spazio dove si può fare di più e dove ci si può educare alla multietnia. Non è solo un problema di prima accoglienza e di inserimento,  in merito ai quali si sono formulati numerosi protocolli. Il discorso va ampliato alla necessità di costruire una dimensione nuova, che parta dalla riconfigurazione della composizione sociale odierna, dalla sua intrinseca eterogeneità, per ridefinire uno status ambientale caratterizzato dalla multiculturalità, che valorizzi il cosmopolitismo ne sia nobilitato, riconoscendolo come un valore aggiunto. 

Perché ciò avvenga, occorre un paziente lavoro normativo a monte e una sensibilizzazione sociale che arrivi nel profondo delle coscienze. È chiaro che gli atteggiamenti xenofobi, i nazionalismi, le intolleranze religiose, i pruriti razzisti, sono i peggiori nemici del panorama sociale appena descritto e se da un lato è necessario aggiornare le leggi italiane che risalgono oramai agli anni ‘90 (il Testo unico sull’immigrazione è del 1998), dall’altro bisogna inasprire le pene per chi compia azioni lesive della dignità della persona proveniente da un altro paese, dall’insulto razzista alla violenza fisica. Sono, purtroppo mali ancora assai frequenti, rispetto ai quali sono necessarie intransigenza e inflessibilità. Nessuna deroga.

Nelle comunità educanti come in qualunque consesso umano, non può esserci spazio per volgari manifestazioni di hate speech.

Proprio nei giorni scorsi il Ministro Bianchi ha firmato l’ultimo documento, il 5º,  realizzato dall’Osservatorio Nazionale per l’inclusione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale, un testo che affronta i diversi volti di una integrazione non sempre autentica ma solo “sulla carta”. È un bel documento, belle parole in fila una dopo l’altra. Dobbiamo però pretendere che non restino pagine di intenti programmatici e buona scrittura: devono rappresentare una accelerazione, uno slancio verso la concreta attuazione di virtuose pratiche inclusive nel territorio. 

Ancora una volta bisogna sperare nella sinergia tra operatori della scuola, media, soprattutto social media, uomini di governo, EE.LL., associazioni del Terzo settore e chiunque altri voglia contribuire ad edificare un solido ed accogliente edificio, una casa di tutti i meravigliosi colori delle etnie umane.

Giovannella Gennaro nasce a Catania il 1° luglio del 1965 e vive alle pendici dell’Etna dove svolge anche la sua docenza di Materie Letterarie, in una scuola alberghiera. Profondamente attratta da ogni espressione naturalistica, ama dedicare il suo tempo alla fotografia, al cinema, alla lettura e al viaggio. Fiera sostenitrice dei diritti umani, professa, con immutato vigore, l’avversione ad ogni forma di sopraffazione, xenofobia, razzismo ed integralismo. Ha ricoperto numerosi incarichi scolastici istituzionali quali F.S. al ptof, coordinatrice dipartimentale, referente Erasmus+, formatrice sulla progettazione di candidature Erasmus, beneficiaria di mobilità all’estero, in Spagna e in Finlandia, tutor di progetti PON. 

 

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