A causa dell’estesa gamma dei sintomi che varia per livello da individuo ad individuo, l’autismo è oggi definito “disturbo dello spettro autistico” o ASD dall’acronimo inglese di ‘Autism Spectrum Disorder’. Il disturbo varia in complessità in base al livello di compromissione che limita l’autonomia del soggetto nella vita quotidiana.
Le persone con disturbo dello spettro autistico hanno generalmente sintomi che si manifestano con difficoltà nella comunicazione e nell’interazione sociale, difficoltà di comprensione del pensiero altrui e difficoltà ad esprimersi. A volte il linguaggio verbale è del tutto assente, altre volte è presente e ben strutturato ma si caratterizza come una sorta di ‘soliloquio’, ovvero non presenta le caratteristiche della socialità. Inoltre è presente una difficoltà nell’aggancio visivo: l’individuo sfugge al contatto oculare con l’altro. In aggiunta si riscontrano un’ipersensibilizzazione nei confronti di rumori e suoni, movimenti del corpo ripetitivi e stereotipati, risposte insolite al cambiamento della routine. Il livello di funzionamento intellettuale è estremamente variabile, va da una compromissione profonda a capacità cognitive superiori.
Le cause di questo complesso disturbo risultano ancora sconosciute anche se i ricercatori concordano nell’affermare che entrano in gioco cause neurobiologiche, costituzionali e psico-ambientali acquisite. Nello specifico le più moderne ricerche ipotizzano una differenza morfologica della corteccia cerebrale ovvero le connessioni tra la corteccia visiva e quella prefrontale ventromediale, implicata nello sviluppo delle emozioni e delle abilità sociali, sarebbero molto ridotte. Resta ancora da capire se tale differenza è da attribuire a cause di origine genetica o a cause di natura ambientale.
I diversi approcci di trattamento dell’autismo (teacch, aba, caa, pep-r) evidenziano un quadro di riferimento assolutamente non uniforme, in alcuni casi contrastante fra indirizzi terapeutici, riabilitativi ed educativi diversi. In generale, è evidente come non esista una terapia risolutiva, anche in considerazione dell’estrema variabilità del disturbo. Pertanto gli schemi interpretativi devono tener conto del modo significativamente diverso di utilizzare i sistemi percettivi, motori, mnestici, intellettivi, comunicativi, affettivo-emozionali e relazionali. L’intervento deve, poi, considerare le caratteristiche dell’ambiente fisico e relazionale, adattarsi ad esso, connaturando un approccio non fisso ma estremamente flessibile, in grado di adattarsi all’esigenze specifiche del soggetto e del contesto di riferimento.
Altro elemento imprescindibile, considerata la complessità dell’intervento, è il lavoro d’equipe, ovvero la necessità di ricorrere alla presa in carico del soggetto da parte di una comunità di esperti e tecnici, anche di diverso profilo professionale (neuropsichiatra, psicoterapista, psicologo, educatore, insegnante, assistente all’autonomia e alla comunicazione, terapista, operatore di comunità, etc).
Per una maggiore chiarezza interpretativa abbiamo incontrato il Dottor A.V., psicoanalista di stampo freudiano-lacaniano della città di Torino, che vanta una autorevole esperienza nel trattamento dell’autismo. Lo psicoanalista ci racconta una vicenda alquanto singolare, preziosa e che ci aiuta a comprendere il mondo dell’autismo.
“Ero entrato nell’equipe di lavoro di questa comunità per pazienti affetti da spettro autistico da meno di un mese, molti anni fa. Avevo 25 anni circa. Stavo conoscendo la psicoanalisi, l'avevo iniziata da poco tempo.
Mi ritrovo in turno da solo con quattro pazienti. Era un giorno di uscita, si andava a fare un giro in città. Le uscite erano sempre molto problematiche, comportavano una certa dose di angoscia derivante dal cambio di routine. Ad un certo punto vedo arrivare Paul, un ‘bambinone’ di 80 kg, alto 180 cm, di circa 13 anni con un mega peluche, un orso che portava sempre con sé. - È proprio un peluche enorme, più grande di un bambino. Serve un posto in auto solo per l'orso, penso tra me e me.
Concentro il mio intervento per cercare di fargli mollare l’orso. Le provo tutte. Niente da fare, non lo molla e si agita. Comincia a prendere a calci le cose. La separazione tra lui e l'orso era una cosa per lui intollerabile. Per me, invece, per la mia logica, era inconcepibile andare in giro con un peluche di quelle dimensioni e dunque cercavo di allontanarlo da uno schema ‘sbagliato’ per portarlo ad uno schema ‘sano’.
Chiamo la direttrice di comunità, le spiego il problema, le dico che siamo ad una empasse rispetto all'obiettivo dell’uscita. Lei mi risponde evidenziando come proprio in quel momento ero di fronte alla questione dell’autismo e mi intima di trovare una soluzione. Lì ho fatto appello a tutte le mie risorse. Da solo in turno con quattro ragazzi della comunità, dover organizzare al meglio l’uscita e andarci con un orso di peluche alto 1 metro e 40, in un'auto da cinque posti, un’utilitaria piccola. Mi rivolgo al ragazzo che ormai era agitato e gli dico -Va bene, Paul, portiamo con noi Broncio!
Noto che gli altri sono già seduti. Paul sale in auto, prova a tirare dentro Broncio ma non riesce, esce lui, siede l'orso, prova a sedersi sopra all'orso. Poi si illumina. Siede l'orso al volante, si siede ed io mi ritrovo fuori dalla macchina al cui volante c'è un orso di peluche e quattro ragazzi che serissimi son pronti a partire e si chiedono come mai la macchina non parta. Provo a spiegare che così, senza di me che ho la patente, non si può partire. Accettano la spiegazione. Broncio non ha la patente. È innegabile!
Dove possiamo mettere Broncio? – chiedo condividendo il problema con gli altri. L'altra bambina risponde - Lo mettiamo a dormire nel bagagliaio! Guardo Paul, lui mi guarda per un attimo, un attimo soltanto, e si sistema l'orso nel bagagliaio. Finalmente si parte.
Arriviamo nel centro di questa cittadina, scendiamo dalla macchina e Paul è lì che punta al bagagliaio. E allora apro, Paul si prende felice Broncio e partiamo per la passeggiata. Lei si immagini: quattro ragazzi andare uno in una direzione e uno in un'altra. Capisco che non c’era molto da fare se non seguire la loro modalità e comincio ad andare per la mia strada invece di correre dietro alla loro. E seppur con traiettorie strane, facendo deviazioni, non mi perdono di vista e mi seguono tutti. A volte uno si ferma a guardare qualcosa ma poi si riprende e mi raggiunge.
Ci fermiamo a fare merenda in un bar. Paul, il bimbone dell’orso, chiede delle patatine. Va all’espositore e prende tutti i sacchetti uno per uno e li pesa tra le mani. A quel punto il tipo del bar, un po’ seccato, esordisce - Senti, prendi un pacchetto e non li stropicciare tutti! Paul lo ignora e continua a pesare i pacchetti. Non faccio in tempo ad intervenire che il tipo del bar va da lui, gli tira via dalle mani i pacchetti e lo spinge delicatamente verso di noi al tavolino. Paul, indispettito, rovescia l’espositore delle patatine sul pavimento del bar, tutti i pacchetti sono a terra e ne pesta due o tre facendoli scoppiare. Gli altri ragazzi ridono a crepapelle mentre io disperato a scusarmi e il barista attonito. Usciamo dal bar e in qualche modo torniamo alla comunità.
E io quella sera mi dico - Se mi dimetto non farò mai l'analista, se continuo con questo lavoro lo farò. E continuai per molti anni ancora”.
Il racconto dello psicoanalista, a cui vanno i nostri ringraziamenti, ci suggerisce possibili interpretazioni per meglio comprendere l’estrema complessità del disturbo e le numerose difficoltà che professionisti a vario titolo incontrano nel trattamento; soprattutto evidenzia la necessità di un approccio alla persona piuttosto che al disturbo.
Sulla scorta di queste riflessioni ci sentiamo di affermare che non esiste un’unica metodologia risolutiva nell’approccio all’autismo, men che meno pratiche terapeutiche fisse, eccessivamente strutturate, ‘economiche’. Abbiamo invece bisogno di progettare interventi di qualità orientati alla persona che richiedono tempo e condivisione, integrazione tra teorie e approcci diversi, lavoro di equipe per meglio gestire le difficoltà e le risposte ad esse.
Concludiamo la nostra breve riflessione con le significative parole del Dottore A.V.
“Non conta l'etichetta che abbiamo dato ad un soggetto. Conta la relazione che instauriamo con lui, quanto e come ci si implica nella relazione. Conta, altresì, quanto è forte il desiderio di trovare insieme una soluzione alle sue angosce”.
Alfonsina Ventola Docente di sostegno presso scuola primaria dell'istituto comprensivo Don Lorenzo Milani di Manocalzati (Av)- Laureata in scienze della formazione primaria e in scienze dell'educazione, entrambe con Lode